Nicorvo -Tromello, 26 km. Il paesaggio è sempre quello, risaie a perdita d'occhio e se non son quelle son pannocchie. Il sole resta per un paio d'ore dietro una sottilissima coltre di nubi il che non mi dispiace neanche tanto: luce diffusa ottima per le foto e zero caldo.
Arrivo a Mortara velocemente e senza incontrare pellegrino alcuno; è un paesone senza particolari attrattive a parte l'abbazia di S. Albino che si trova proprio ai confini. Faccio una breve visita, metto il timbro sulla credenziale e ne approfitto pure per fare una sosta e rifocillarmi. Trecento metri di asfalto e si torna fra i campi.
C'è una cosa che non vi ho detto di questo territorio che è anche il motivo per cui mi affascina tanto: trasuda inquietudine. Questo spazio ampio e desolato, da cui spuntano come scheletri di dinosauri le antiche cascine parzialmente o totalmente abbandonate mi mette addosso una sorta di oscura agitazione. Un tempo in quelle strutture vivevano fino a 250 persone (un condominio) più le bestie (vacche, pecore, pollame assortito e maiali). Dovevano essere posti rumorosi ma non dei rumori di oggi, quelli fastidiosi e assordanti, di quelli di un tempo, quelli rurali. Ora bene che vada una parte di quei casolari è abitata da una famiglia minima e i cortili e le stalle servono come ricovero per trattori ed altre macchine agricole ma spesso non c'è più nemmeno quello, c'è solo il silenzio, il silenzio e il rumore del vento. È lui l'unico a far vivere ancora quei luoghi, facendo sbattere una finestra, infilandosi in buchi e fessure per giocare a fare l'organista, a suonare melodie scordinate e cacofoniche. Oltre a questo nulla, il silenzio appunto. Ma il silenzio, a volerlo ascoltare, ha molto da dire, John Cage lo sapeva bene e il silenzio che c'è qui è fatto dei mille pensieri, mai morti, della gente che per generazioni ha vissuto e lavorato qui: i fattori, le mondine, gli agricoltori e tutte quelle persone che in questi microcosmi hanno trascorso la loro esistenza. È questo ad inquietarmi (nell'accezione positiva del termine), il rumore della storia, del tempo che fu. Spesso mi giro di scatto a guardare la risaia, convinto di aver colto con l'estrema coda dell'occhio un movimento, il chinarsi di una schiena, il braccio di una donna che strappa la piantina dall'acqua. Di fatto li vedo, li percepisco, ma non sono reali se non nel mio sentire e tanto mi basta.
Ognuno ha un pizzico di follia congenita, io ho la mia. Se sapessi scrivere noir ne ambienterei sicuramente uno qui ma non sono Simenon, lo so (e nemmeno voglio eserlo).
Tromello è un altro di quei paesi sperduti nella piana, fatto di vecchietti che giocano a carte fuori dal bar e di case base e spesso vuote. Mi ha accolto bene, con una limonata fresca, il timbto sulla credenziale e una spilletta ed una pergamena della Francigena. Non c'è che dire: accoglienza pellegrina in guanti bianchi.
Il mio animale totemico di oggi è la libellula, il Dragonfly, curioso insetto a quatro ali motrici. Non mi è mai stata molto simpatica, il suo volare disarmonico mi destabilizza e mi inquieta, come la risaia, l'ha sempre fatto. Oggi però la bestiolina, anzi, le bestioline hanno guadagnato punti: mi hanno accompagnato discrete e divertenti, mi hanno regalato i loro colori sgargianti e le loro geometrie volanti tenendosi a debita distanza. Non lo dimenticherò.
A Roma mancano circa 680 km, l'è ancora lunga. Zitto e cammina, cammina e cammina.
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