mercoledì 18 novembre 2020

In terra d’Alpago


C’è un lago, in provincia di Belluno, che è dominato dal vento, un vento che si sveglia tardi, verso mezzogiorno, come un viveur che ha fatto nottata ma che è pronto a vivere alla grande una nuova giornata, magari dopo un buon caffè: è il lago di Santa Croce. 

Magnifico specchio d’acqua circondato dalle Prealpi bellunesi, è il cuore pulsante dell’Alpago; qui si svolge gran parte dell’attività turistica di quest’incantato angolo di Veneto, attività legata agli sport acquatici, vela, windsurf, kitesurf, e wing foil, una disciplina recente che, grazie all’uso di una tavola appoggiata a una pinna simile a quella degli aliscafi, permette di volare letteralmente sull’acqua, sospinti da un’ala che cattura il vento e lo trasforma in un reattore totalmente green.

Credo che verde sia la parola più appropriata se parliamo delle attività sportive, molte adrenaliniche, che si svolgono qui in Alpago perché, che siano legate all’acqua del lago o all’immenso blu del cielo, è sempre il vento il motore di tutto. 

Il Monte Dolada, 1938 metri di splendida montagna, domina la vallata e dalla sua cima si lanciano i temerari del volo con i loro deltaplani e parapendii dai colori sgargianti. Le loro acrobazie riempiono di arcobaleni minimi l’azzurro e fanno provare emozioni anche a chi li guarda da giù, con i piedi ben saldi sul terreno, oppure a mollo nelle acque del lago, che ha un’ampia zona riservata a chi l’acqua la vive in maniera meno ardimentosa e anche un’apprezzatissima dog beach per chi non riesce a separarsi dal suo amato quadrupede.

Io, che non sono nato per le emozioni troppo forti, l’ho girata in maniera slow, cavalcando la mia ormai fidata E-Bike fornita da B-Ride Belluno ed è in questo modo, sempre sotto la preziosa guida di Giorgio, che ho scoperto l’oasi di Sbarai.


L'oasi di Sbarai


Il nome deriva dalla parola sbarramento, perché il lago di Santa Croce è naturale ma nel corso degli anni ha subito alcune modifiche; una diga a nord, per alzare ed abbassare il livello dell’acqua, e le centrali elettriche a sud, in grado di fornire energia a un vasto territorio.

Quando il livello del lago sale, un boschetto lungo la riva nord, costituito per lo più da alberi di salice bianco, va sott’acqua trasformando l’area in qualcosa di simile a un bayoudella Louisiana. Strano albero il salice bianco, ha la bizzarra attitudine a sopravvivere anche quando le sue radici e parte del suo fusto sprofondano nell’acqua; ha la gioia di un bambino unita all’esperienza di un palombaro.

A ottobre il lago è in secca, ma in estate qui ci si arriva con i kayak e muoversi silenziosamente in quest’ambiente spettrale, deve avere un fascino unico.

Dall’oasi si segue la ciclabile che aggira il lago sul versante orientale e che è parte della Monaco – Venezia, una delle più belle piste d’Europa per ciclisti.


In bici lungo la ciclabile

Il porticciolo di Poiatte

Seguendola sono arrivato fino alla frazione di Poiatte, dove ci sono un delizioso porticciolo e la scuola di sport a vela della Lega Navale Belluno. Qui si fanno corsi destinati a tutti quelli che vogliono provare l’ebrezza di cavalcare il lago e a parlare con gli istruttori, due ragazzoni che sembrano appena usciti da Point Break, verrebbe anche voglia ma io sono un montanaro e con l’acqua ho poco a che spartire.

Poco più avanti, sulla stessa riva, c’è il Centro Ittiogenico nato da un progetto atto a riqualificare l'area e ripopolare il lago delle specie di pesce caratteristiche e a rischio estinzione: coregone, luccio e trota.

Ogni riproduzione ha i suoi tempi e i suoi momenti e ottobre non è periodo di nuove nascite qui al centro, ma visitarlo ed ammirarne la bellezza architettonica è servito a conoscere alcuni produttori locali: su una lunga tavolata c’erano formaggi, salumi, olio, marmellate, fagioli e vino; tutto, ovviamente, a Km 0.  

Ho scoperto che c’è un allevamento di maiali di cinta senese qui in zona, che l’agnello va per la maggiore in Alpago e che ci sono dei vini che si definiscono PIWI perché resistono alle malattie funginee, alle variazioni climatiche estreme e ai danni che provocano. Questa forza, se così si può dire, fa si che l’uso dei pesticidi nella vigna sia ridotto sensibilmente, a favore non solo del vino ma anche dell’ambiente.


L'ala del Wing  Foil                                                 Carne secca dell'Alpago


Per quel che riguarda l’agnello, oltre a essere uno dei piatti più apprezzati dagli abitanti della Conca, è anche un presidio Slow Food; la carne usata è, infatti, quella della pecora alpagota, un ovino autoctono. 

Se volete gustarlo al suo meglio, potete contare sulla presenza di ben due ristoranti stellati, la Locanda San Lorenzo, che ha molto a cuore i prodotti e le tradizioni gastronomiche locali che rivisita con maestria e buongusto, e il Ristorante Dolada, situato a mezzacosta nella frazione di Pieve d’Alpago, dove ha cucinato per una vita Enzo De Prà, un pioniere dell’Alta Cucina italiana, che oggi ha lasciato le redini al figlio Riccardo. Qui non è spettacolare solo mangiare, anche se la carbonara destrutturata, da buon romano, non mi ha convinto, ma anche dormire. La scala che porta alle camere al piano superiore è addobbata di zucche e lanterne come il castello di Hogwarts e la vista mattutina del lago e delle montagne circondate da spesse nuvole grigie, ricorda quelle che Harry Potter poteva vedere dalla finestra del dormitorio.

Scambiare quattro chiacchiere a colazione con il signor Enzo e gustare con lui un caffè parlando di cucina è stata un incontro che non dimenticherò mai.


Il risotto alla zucca quattro sapori della Locanda San Lorenzo


Il vitello tonnato del Dolada, una squisitezza

La scala delle zucche al Dolada

Se poi, per cena, vi verrà la voglia di salire ancora un po’ e di arrivare quasi in cima al Monte, potrete vivere l’esperienza di mangiare in un vero rifugio, dall’atmosfera tipicamente spartana, l’accoglienza calorosa e un menù che non ti aspetteresti.

Anche qui si può dormire, soprattutto se si vuole rimanere in alto e camminare lungo i sentieri che percorrono le creste del Monte Dolada, ma mi sento vivamente di consigliarvi una cosa: allontanatevi di qualche chilometro, puntate verso Belluno e concedetevi il percorso che attraversa un vero e proprio canyon: il Bus del Buson. Le alte pareti di roccia sorvegliano quello che un tempo è stato il corso del fiume Ardo, un fiume che ha deciso di traslocare, forse per una frana che gli aveva ostruito il passaggio, e che ora è asciutto e percorribile. Un sentiero ad anello lo attraversa per tutta la sua lunghezza regalando al camminatore uno spettacolo suggestivo. È un percorso da fare in silenzio, sia per rispetto al luogo, sia per cogliere tutti i lievi rumori che vengono amplificati grazie ad un’acustica eccezionale. Non è un caso se, nel periodo estivo, la “camera” più grande del budello, viene usata come sede di piccoli concerti.


Il Bus del Buson
       Una scala di accesso al borgo di Feltre                                     Il castello di Alboino

La bellezza dell’Alpago è proprio questa, senza spostarsi troppo si ha la possibilità di vedere luoghi bellissimi come questo, o come il borgo di Feltre, uno dei più belli d’Italia, con la sua cinta muraria quasi intatta e il Castello di Alboino. La stessa Bassano, con la sua grande piazza centrale e il suo centro storico merita assolutamente una visita.

Se poi siete degli amanti della birra, beh, non potete non fare una visita e pranzare alla Birreria Pedavena. 

Quella della Pedavena è una storia lunga, che inizia nel 1897, con l’inaugurazione del birrificio e che, attraverso cadute e rinascite arriva fino ai nostri giorni. 

Le grandi sale che ospitano i commensali sono rimaste ancorate nel tempo, la cucina invece si è un po’ evoluta e si può mangiare il risotto alla birra, con tanto di eruzione di schiuma, o il birramisù, un’affascinante variante, sorseggiando una rossa corposa. Io amo la birra, e pasteggiare così è stato un vero e proprio regalo.


L'ingresso della Birreria Pedavena


 

L'interno del birrificio Pedavena

Il regalo più bello però, visto che il mio compleanno cadeva proprio nei giorni della mia permanenza in terra d’Alpago, me lo ha fatto Cristian, il pasticcere della sublime Pasticceria Gaggion. Una mattina ci ha regalato un piccolo corso di pasticceria, insegnandoci a fare alcuni tipi di biscotti e facendoci assaggiare alcune sue creazioni. Io, che con i dolci ci ho sempre litigato, non mi sono scoraggiato e, infilato il grembiule, mi sono messo a impastare, stendere e sagomare degli ottimi pasticcini.

    
                     Il maestro all'opera                                                          Le mani in pasta

L'agriturismo Faverghera sotto la neve


La salita in cima al Nevegal per visitare l’Agriturismo Faverghera era l’ultimo appuntamento di questo viaggio. Marco Vuerich è un ragazzone che ha le idee chiare: azienda agricola e baita dove far assaggiare agli escursionisti e agli sciatori le prelibatezze del territorio. Si è imbarcato in quest’avventura sette anni fa e la porta avanti con passione, coadiuvato dai genitori che con lui condividono la passione per l’accoglienza e la montagna.

Fuori nevicava e faceva freddo, eravamo tutti seduti con ancora in bocca i sapori della cucina, quando una torta è apparsa davanti a me: sopra c’era la mia immagine e attorno tante candeline da spegnere; ero avvolto dal calore della stufa e soprattutto delle persone che mi hanno accolto e mi hanno aperto le porte del loro territorio mostrandomi i suoi segreti, persone che non dimenticherò.


Cristian, Marco e la mia torta di compleanno





martedì 3 novembre 2020

Fra Cimbri e Cervi: l’altopiano del Cansiglio


È difficile che io trovi un luogo dove mi senta in armonia con tutto ciò che mi circonda, un posto dove possa lasciarmi sopraffare liberamente da emozioni pure; se poi parliamo di natura, le mie esigenze diventano ancora più difficili da soddisfare. Non ci posso fare niente, sono fatto così: non sono di bocca buona, punto. Eppure.

L'aspetto carsico dell'altopiano del Cansiglio

Il Cansiglio è un vasto altopiano che si trova nelle Prealpi bellunesi, un’enorme spianata verde circondata da un anello di folta foresta, composta principalmente da faggi ma dove trovano habitat anche alcune aghifoglie, soprattutto l’abete rosso. Il terreno è carsico ed è costellato di doline e inghiottitoi, alcuni profondi oltre 700 metri, altri meno. Il più famoso è sicuramente il Bus de la Lum (cioè il buco della luce) un unico pozzo a strapiombo che è legato, nel folklore locale, alle Anguane, streghe malvage e dall’aspetto terribile che rapivano, per cibarsene, i bambini che si erano persi nella foresta. 

La sensazione di trovarsi in un posto magico si ha fin da quando, venendo su dal paese di Tambre e lasciatosi alle spalle Pian Osteria, uno dei nove villaggi Cimbri della zona, si esce dalla faggeta e la strada spiana nell’enorme spazio aperto e libero, una sorta di prateria, dove pochissime costruzioni interrompono lo stendersi armonico di madre natura.


L'ingresso al Cansiglio salendo da Tambre


Il Cansiglio è zona demaniale e lo è dai tempi del Regno d’Italia pur essendo stata per lunghissimo tempo una zona controllata dalla Serenissima; Venezia, infatti, usava il legno dei faggi per produrre i remi per le barche che si costruivano all’Arsenale e per sorvegliare la faggeta e controllare che i tagli degli alberi fossero eseguiti secondo un ordine ben preciso, in base alla posizione e all’età di ogni singola pianta, istituì la figura del Capitano Forestale. Non è raro, girando per la zona, imbattersi in alcune pietre che riportano sulla loro superfice, delle date dipinte; erano i demarcatori dei confini della foresta ai tempi del dominio veneziano.


Il Bar Bianco e una pietra demarcatrice della foresta

Le uniche attività che si svolgono nell’altipiano sono legate alla pastorizia, alla produzione alimentare, alla ristorazione e al golf. Ebbene si, nel locale Golf Club 18 buche attendono gli appassionati di mazze e palline bianche insieme a un ristorante dove mangiare è una vera esperienza, come lo è visitare il Centro Caseario Spert. Qui, le mucche sono allevate in maniera biologica e producono un latte sano e gustoso da cui si ricava una vasta gamma di prodotti: formaggi di ogni tipo, freschi, mezzani e stagionati e uno yogurt cremoso che è una vera delizia, soprattutto per chi, come me, lo consuma a colazione. Il Bar Bianco è un luogo dove poter degustare tali prelibatezze con autentiche verticali di formaggi in ordine di stagionatura, che possono essere acquistati qui o anche allo spaccio dell’agriturismo che si trova a Tambre, i cui corridoi sono invasi dall’odore del latte fresco, la colazione è a km 0 e dove ho avuto il piacere di dormire due notti.

Il fatto che il demanio sia proprietario unico di ogni cosa in Cansiglio, fa si che le attività abbiano una durata di trent’anni e che poi vengano riassegnate in base a bandi specifici; questo assicura che l’integrità del posto venga preservata.


Le mucche del Centro Caseario


Gli unici a non essere soggetti a questa legge sono i villaggi Cimbri.

Quella del popolo Cimbro è una storia affascinante; di origine celtica o germanica, si spinsero oltre le alpi scendendo dalla zona dell’odierna Danimarca e si sistemarono in epoca medievale nelle zone montuose del Veneto fra Vicenza, Verona e Treviso e più tardi anche nella zona del Cansiglio. Le testimonianze della loro presenza dal 1700 a oggi sono tutte raccolte nel piccolo Museo regionale dell'Uomo in Cansiglio "Anna Vieceli" e Centro etnografico e di cultura cimbra, di proprietà di Veneto Agricoltura.

Qui si narra della loro abilità nell’arte della falegnameria e soprattutto nella fabbricazione degli scatoi, contenitori circolari per la conservazione del formaggio, che permise loro di accasarsi in queste terre dove pochi volevano vivere e di costruire dei veri e propri villaggi, piccoli e spartani, di cui rimane ancora traccia. In questa zona ce ne sono nove, alcuni ben conservati e ancora abitati in alcuni periodi dell’anno, altri in stato di abbandono.

Uno dei più affascinanti e meglio conservati è sicuramente quello di Vallorch, la valle dell’orco, datato 1798; situato all’interno della faggeta, vi si accede percorrendo poche centinaia di metri di una bella strada forestale. 


Il villaggio cimbro di Vallorch

Nella faggeta


Giorgio, la mia super guida di Prealpi Cansiglio Hiking che mi ha portato in giro per quattro giorni, mentre ci avvicinavamo al villaggio mi ha spiegato l’ecosistema di quest’ambiente, mi ha mostrato alcune delle specie che vivono nell’ombroso sottobosco come il marasmium agliacium, un piccolo fungo che sa di aglio, e il suo parente Craterellus cornucopioides, meglio noto come trombetta da morto, un fungo che con il suo pigmento è in grado di colorare di nero la pasta. Ho addirittura assaggiato la faggiola, il seme del faggio che, chiuso in un piccolo guscio, è commestibile come fosse una piccola mandorla. 

L’incontro più bello, però, è stato quello con una giovane cerva, un esemplare non più vecchio di cinque mesi; era lì che brucava l’erba fra un paio delle casette in legno del villaggio e anche quando mi ha visto non è sembrata spaventata, forse solo incuriosita da un omone grande e grosso come me che la inquadrava con una buffa scatola. Si è limitata a trotterellare via quando la distanza che ci divideva si è fatta più sottile, e l’ha fatto con grande eleganza, degna di una mannequin in passerella.


L'incontro con la giovane cerva


I cervi, soprattutto nel periodo degli amori che va da metà settembre a metà ottobre, sono una delle attrazioni principali del Cansiglio. Nella faggeta trovano un habitat naturale numerosi esemplari che vivono serenamente tutto l’anno, isolati dalle femmine e ben nascosti nel folto della foresta, ma in questo periodo, frastornati dagli ormoni e resi meno sospettosi dall’iter del corteggiamento e della riproduzione, si mostrano nel fondo dell’altopiano, soprattutto all’alba e al tramonto.

La loro presenza è annunciata dal bramito, il caratteristico verso gutturale emesso come richiamo d’amore. Spesso basta essere più potenti da questo punto di vista per sconfiggere un rivale e conquistare un branco di femmine, altre volte è necessario lo scontro fisico; i duelli si svolgono a testate, con i grandi palchi ossei che ogni esemplare sfoggia incastrati l’uno con l’altro e la spinta tenace delle zampe e di tutto il corpo. Chi ne uscirà vincitore avrà a disposizione un intero branco e dovrà garantire la riproduzione della specie, ma non sarà una cosa facile: il maschio dovrà ingravidare tutte le femmine del branco ma loro non si concederanno proprio con facilità, vorranno essere in qualche modo corteggiate. 

La gestazione, ad accoppiamento avvenuto, è alquanto bizzarra: la futura mamma cerva, sviluppa l’embrione ma lo “congela” per tre mesi in modo che il piccolo nasca fra giugno e luglio, quando il clima sarà più mite e il cibo a disposizione più abbondante.

Ora, posso assicurarvi che vedere, seppur con un cannocchiale, un cervo circondato dal suo branco alzare il muso al cielo e lanciare il suo potente verso, vale da solo una visita a questo luogo fantastico; se poi, com’è successo a me, ci sarà una leggera nebbia a rendere il tutto più magico, ne sarà valsa doppiamente la pena.


Il cervo maschio e il suo branco nella nebbia


Cenare in Cansiglio all’Azienda agricola Filippon è un po’ come continuare a vivere quest’esperienza perché, una volta terminato il pasto, vi affaccerete sull’enorme buio dell’altipiano e vi sentirete circondati dai richiami d’amore di questi splendidi animali e vi sentirete anche voi un po' più, diciamo così, romantici.

Se non volete rimanere in alto potete scegliere di tornare verso Tambre e fermarvi a Pian Osteria dove, altre al Museo sui Cimbri, ci sono due accoglienti ristoranti, La Huta che nella lingua cimbra vuol dire “rifugio” e la Locanda al capriolo dove potrete assaggiare specialità locali come i casunzei, ravioli tipici, con il tarassaco e il formaggio, il pastin, una sorta di salame morbido fatto con carne di manzo e maiale che si cucina in vari modi e si sposa perfettamente con la polenta, e poi tutto un tripudio di carne di capriolo o di cervo. Inevitabile a fine pasto, un goccio di grappa al cumino.  

 

Casunzei con il tarassaco e pastin

Il Cansiglio però non è solo cervi e Cimbri e la zona, se avrete la voglia di girare, ha molto altro da offrire, a partire dai tanti sentieri con cui gli amanti del trekking possono attraversare i boschi e salire verso le cime che circondano l’altopiano ma l’offerta è ampia anche per gli amanti delle due ruote.

Io, che amo la bici ma che dopo dieci metri di salita ho sempre alzato bandiera bianca, ho scoperto la bellezza della E-Bike grazie alla B-Ride Belluno che mi ha messo a disposizione una bicicletta con pedalata assistita e l’esperienza (e la simpatia) di una guida esperta, Ennio. È stato grazie a questa bici che ho potuto visitare la Casa Museo dell’Alchimista a Valdenogher, a pochi chilometri da Tambre. La storia è quella di un nobile egiziano, alchimista e per questo condannato a morte in patria, fuggito e approdato a Venezia. All’epoca la Serenissima era una città molto aperta e accolse lo studioso fornendogli una casa in Alpago per continuare i suoi studi. 

La casa, che con la sua facciata ricorda più una casa veneziana che una locale, doveva avere una facciata arricchita da decorazioni a bassorilievo su pietra di cui ormai rimane ben poco e all’interno ospita oggetti tipici delle pratiche alchemiche, come ampolle e alambicchi.  

I tre piani dell’edificio rappresentano simbolicamente le tre fasi dell’opera alchemica, il Nigredo, l’Albedo e il Rubedo, che servono per ottenere la Pietra filosofale. 


La Casa Museo dell'Alchimista



La casa del libro

Potrete rimanere stupiti di trovare un luogo come questo in un piccolo paese di montagna, ma vi stupirà ancora di più trovare, qualche chilometro più in là, una casa con un libro per tetto. È un’abitazione costruita interamente in legno dal famoso scultore veneziano Livio De Marchi le cui pareti sembrano composte da volumi impilati, la staccionata è formata da grosse matite colorate e il cancello è un paio di occhiali rossi.

La staccionata di matite


Abbracciando Nonno albero


Poco distante c’è il faggio di Sant’Anna, vecchio più di 400 anni. È enorme, un po’ malandato ma ancora fermo sulle sue radici e io non mi sono lasciato scappare l’occasione di abbracciare nonno albero, una pratica cui sono dedito da anni e che mi regala sempre grandi emozioni.

Il vecchio faggio ha il gravoso compito di fare da sentinella all’ingresso della foresta del Cansiglio: da qui, infatti, parte una strada che s’insinua nella fitta stretta degli alberi. La mia E-Bike ha volato nel silenzio del bosco, pedalare è stato bellissimo e il paesaggio che ho attraversato è sensazionale. Certo, ci sono anche i segni del passaggio della Tempesta Vaia che il 29 ottobre del 2018 ha abbattuto milioni di alberi nel triveneto e causato otto morti ma, fortunatamente la zona del Cansiglio è stata sfiorata appena dalla forza del vento e i danni sono stati relativamente limitati. 

Anche il Giardino botanico alpino è stato risparmiato dalla furia dei venti ed è un bene perché in questo luogo si “coltivano” tutte le specie endemiche dell’atipiano e delle montagne circostanti, a partire dal Geranio argentato che, a differenza del nome, ha dei petali di un bel rosa pastello screziati di viola ed è il simbolo del Giardino.

Gestito da Veneto Agricoltura e collegato all’Orto botanico di Padova, organizza durante il periodo estivo, tantissime attività per bambini e adulti, alcune legate al mondo officinale; la funzione più importante, infatti, oltre alla conservazione delle specie, è quella didattica. Qui si insegna la preziosità e l’importanza di ogni singola pianta in un piano biologico più ampio e la necessità di salvare quelle che, spesso per l’intervento dell’uomo tendono a scomparire.

Qui, oltre all’ampia gamma di piante, si potranno osservare alcuni fenomeni carsici come il Bus del Giaz, un inghiottitoio che anticamente veniva usato come ghiacciaia e la cui apertura veniva coperta con numerose frasche per proteggere il prezioso ghiaccio dalla pericolosissima pioggia.


Il Giardino botanico alpino

Il geranio argentato


Questa è stata l’ultima scintilla di una due giorni intensa e ricca di appuntamenti in un luogo affascinante che non mancherà di stupire con tutte le sue proposte il viaggiatore. 

Personalmente ho deciso che quando il grande cervo uscirà nuovamente dal bosco per urlare al mondo intero il suo desiderio, io asseconderò il mio e tornerò a solcare la grande pianura del Cansiglio per vivere nuovamente le stesse emozioni. 




domenica 27 settembre 2020

Castro, la perla del Salento

Il porto di Castro

Rinforzaronsi i venti; apparve il porto
Più da vicino; apparve al monte in cima
Di Pallade il delubro. Allor le vele
Calammo, e con le prore a terra demmo.
È di vèr l’Orïente un curvo seno
In guisa d’arco, a cui di corda in vece
Sta d’un lungo macigno un dorso avanti,
Ove spumoso il mar percuote e frange.
Ne’ suoi corni ha due scogli, anzi due torri,
Che con due braccia il mar dentro accogliendo, 
Lo fa porto e l’asconde; e sovra al porto
Lunge dal lito è il tempio”.

Nel terzo canto dell’Eneide, il sommo vate Virgilio racconta l’arrivo della barca di Enea e del padre Anchise sulle coste italiane. 
Castro, presidio prima messapico e poi greco, è il punto dove il guerriero fuggito con il padre sulle spalle da Troia sconfitta, poggiò i piedi in un porto sicuro, sovrastato dal tempio dedicato alla dea Minerva (Atena o Pallade per i latini). Da quel luogo, Enea ripartì per raggiungere Lanuvio e dare il via, quattro secoli dopo e attraverso i suoi discendenti, alla nascita di Roma. 
Il porto è ancora lì, chiuso e riparato dalle mareggiate, solo che ora ci si fa il bagno in acque limpide mentre le barche, non più di avventurieri e di gloriosi eroi, ma di gente comune che vive sul mare, riposano al sicuro nel nuovo porto costruito appositamente per loro.
Nel 123 a.C. l’insediamento divenne colonia romana con il nome di Castrum Minervae, in onore al tempio dedicato alla dea greca che si ergeva sulla sommità della rocca che tuttora domina la baia.
Ora Castro è un magnifico borgo diviso in due parti, quella alta, dove fanno bella mostra di sé il castello Aragonese, la cattedrale e la cinta muraria, e quella bassa, la marina, dove le case hanno scalato le pareti rocciose e dove l’acqua del mare è trasparente come se non esistesse proprio.
La storia di questo luogo inizia però ben prima dello sbarco di Enea e a testimoniarlo sono delle grotte, soprattutto la Romanelli, scoperta agli inizi del 1900. La grotta ha una grossa importanza per quel che riguarda gli studi preistorici grazie alla perfetta stratigrafia al suo interno che ha chiarito molti aspetti della presenza dell’uomo in queste terre. Qui, nei suoi trentacinque metri di lunghezza, l’uomo del paleolitico ha lasciato traccia di se con incisioni, pittogrammi e con strumenti di pietra. 
La grotta Romanelli non è visitabile e sono in corso ancora degli scavi al suo interno, ma ci si può consolare entrando nell’antro carsico della grotta Zinzulusa. Il nome deriva dal termine zinzuli, che in dialetto significa stracci; entrando nella grotta, infatti, si possono notare sulla volta le stalattiti che scendono proprio come fossero stracci bagnati.
Una volta entrati, si percorre uno stretto sentiero che prima passa accanto al Trabocchetto, un limpido laghetto di acqua dolce con infiltrazioni marine, per poi muoversi fra meravigliose conformazioni rocciose fino ad arrivare alla grande cavità nota come Il Duomo, le cui pareti s’innalzano fino a venticinque metri di altezza. Un tempo la grotta era abitata da una grossa colonia di pipistrelli e il loro guano aveva ricoperto ogni cosa con uno spesso strato. Essendo un prodotto naturale molto usato sia nella cosmetica sia nella preparazione d’inchiostri, nel 1940 si decise di grattarlo via per venderlo e così le pareti ritrovarono il loro candore naturale. Gli operai che eseguirono il lavoro lasciarono la loro firma come testimonianza dei numerosi giorni passati nell’antro, usando come vernice proprio il guano. 
La visita termina qui, anche se la grotta è più estesa e vede la presenza di un altro piccolo lago immerso nel buio. Qui cresce un piccolo gambero cieco che vive la sua vita in una condizione di purezza assoluta, lontano dalla mano spesso devastatrice dell’uomo. 
Un’ultima curiosità: nel 1968 in questa grotta, Carmelo Bene girò alcune sequenze del controverso film Nostra Signora dei Turchi.
Ci sono altre grotte da visitare lungo la costa nord di Castro: la grotta azzurra e quella Palombara. La prima prende il nome dal colore blu intenso dell’acqua, frutto di un complesso gioco di rifrazione della luce solare sul fondo sabbioso, la seconda dai piccioni (palombi) che la abitano da sempre insieme con alcune rondini agilissime.

L'ingresso della grotta Zinzulusa

L'interno della grotta Zinzulusa

La grotta azzurra

Le ho visitate nel miglior modo possibile, entrandoci lentamente con una barca, una sorta di cerimoniale amoroso che prevede un lungo corteggiamento. La barca in questione era la stessa che mi ha portato molto presto a osservare gli impianti di mitilicoltura al largo della costa. 
Mondo Mare Vivo è l’azienda leader nell’allevamento della cozza castrense, oltre vent’anni di esperienza e tanta passione per questo delizioso frutto del mare. 
Il pelo dell’acqua è costellato di galleggianti neri disposti in lunghe file; sotto di loro, sulle funi tenute in tiro da un peso, i preziosi bivalvi crescono e si sviluppano fino al momento della “pesca”. È un allevamento, quello delle cozze, che dura tutto l’anno, anche se in primavera e in autunno, periodo di riproduzione, la polpa in ogni singola conchiglia è sicuramente minore.
Assaggiare una cozza cruda alle otto di mattina è stata un’esperienza unica e priva di rischi; il mitile, infatti, è un rivelatore della qualità dell’ambiente e se il prodotto è buono e viene su bene, vuol dire che il mare in cui cresce è pulito. Del resto, sulla terrazza panoramica di piazza Perotti, cuore pulsante di Castro alta, sventola la Bandiera blu della FEE (Foundation for Environmental Education), riconoscimento conferito solo alle località costiere europee che soddisfano determinati criteri di qualità. 

L'impianto di mitilicoltura al largo di Castro

Assaggiare una cozza cruda alle 8 di mattina

Piazza Perotti vista dal Castello Aragonese

Sulla piazza, dedicata al famoso poeta del ’900 che qui trovò il suo buen retiro, si affaccia il Castello aragonese, la cui forma più antica risale al XII o XIII secolo; costruito sopra la vecchia rocca bizantina, è stato più volte rimaneggiato e fortificato insieme alla cinta muraria per via delle frequenti incursioni turche. 
Il castello ospita il MAR, Museo Archeologico di Castro, ricco di reperti e ben organizzato, il cui pezzo più pregiato è sicuramente il busto della statua della dea Minerva trovato nel 2015 durante gli scavi archeologici effettuati in località Capanne, lungo la cinta muraria. È stato proprio il suo ritrovamento a confermare ciò che Virgilio racconta nell’Eneide: Enea toccò terra a Castro prima di ripartire per continuare il suo viaggio. Gli scavi archeologici, complessi in virtù della stratificazione della città, sono stati finanziati con fondi europei e, in seguito, con donazioni di privati cittadini castrensi e sono ancora in corso d’opera; hanno permesso, oltre a scoprire la statua della Minerva, di fare luce sull’originale struttura del paese, a partire dalle mura ciclopiche edificate dai messapi, i cui grossi conci si incastravano fra loro in maniera alternata in modo da garantire maggiore robustezza e stabilità. 
Alcune di queste grosse pietre, furono usate per la costruzione della basilica bizantina, datata IX o X secolo e edificata su un precedente impianto paleocristiano. L’antico ingresso, ora su un lato della chiesa  dell'Annunziata, è impreziosito da alcuni antichi affreschi fra cui uno di una Madonna col bambino. 
È un ritratto molto particolare perché il bambino ha in realtà un viso molto più maturo e quasi corrucciato. Sembrerebbe uno scherzo, o la svista della mano inesperta di qualche pittore, e invece ci troviamo di fronte a una visione diametralmente opposta dell’iconografia legata a Gesù bambino che conosciamo, quella rinascimentale. Nel medioevo il cristo bambino doveva rappresentare un uomo già fatto, e quindi su un corpo comunque piccolo, appariva il volto di un adulto, spesso con rughe e stempiature.
La Chiesa dell'Annunziata, con le sue sfaccettature e le sue ripetute ricostruzioni, rappresenta essa stessa il passaggio dal mondo antico e di matrice greca a quello rinascimentale e quindi all’era moderna.  

Il busto della Minerva nel museo Archeologico


L'affresco sul vecchio ingresso della basilica Bizantina

All’area archeologica si arriva seguendo il bel percorso che segue le mura partendo proprio da Piazza Perotti; una breve discesa permette di aggirare il primo bastione dalle cui pietre escono, accese di un brillante color indaco, le Campanule Versicolor note anche come Campanule pugliesi; si tratta di una pianta perenne che cresce e vive in zone rupestri ed è molto diffusa qui in terra di Leuca, anche se per crescere ha bisogno di ben determinate condizioni climatiche. I suoi fiori, nelle giornate calde, emanano un profumo simile a quello dei chiodi di garofano.
Il giro delle mura, oltre ad offrire bellissimi scorci sulla parte fortificata di Castro, spiega il perché la perla del Salento sia definita anche la città dei sentieri. Molti sono, infatti, i vecchi percorsi usati, un tempo, da pescatori e mercanti per raggiungere il mare dalla rocca. Uno fra tutti è il sentiero Palombara che porta ad affacciarsi sulla scogliera sovrastante la grotta omonima. Sul lato opposto dell’insenatura, quasi a picco sul mare, è ben visibile un’èrgate, una specie di pajara o di trullo. Questo piccolo riparo non era abitato dai pescatori ma serviva principalmente come deposito per gli attrezzi da pesca. Vi chiederete come si faccia a pescare da un’alta scogliera; domanda legittima che trova risposta nella creatività della gente locale. I pescatori erano soliti tendere delle lunghissime reti da un lato all’altro dell’insenatura e calarle in mare in modo che i pesci potessero rimanerci intrappolati quando venivano risollevate, una sorta di prototipo delle bilance da pesca.

Campanule Versicolor sulle mura di Castro


Il sentiero Palombara lungo le mura di Castro

Un torrione della cinta muraria di Castro

Castro però non è solo grotte, archeologia e chiese, è anche accoglienza e buon cibo. Nei quattro giorni che sono stato ospite di questo meraviglioso borgo, ho avuto modo di godere dell’ospitalità locale e di mangiare (e bere) in maniera sublime.
Credo sia doveroso parlare di chi mi ha coccolato da questo punto di vista per cui partiamo con le Delizie in Contea, dove ho cenato la prima sera. È molto di più di un’enoteca, è molto di più di un negozio di specialità locali, è un luogo dove si possono gustare tutti i sapori del Salento riuniti in un aperitivo ricco e variegato: puccia farcita in vari modi, formaggi e affettati a chilometro zero, olive e pomodori secchi, focaccia e, ad accompagnare il tutto, la magia dei vini salentini. Si trova a Piazza Vittoria, di fianco alla cattedrale e sulla stessa piazza c’è anche la Pesceria, dove, ovviamente è il pesce a farla da padrone: frittura, tranci di tonno, gamberi al vapore, ottimi crudi e, ovviamente, le cozze, in ogni declinazione.
La friggitoria è una vera tradizione qui a Castro e molti sono i locali che effettuano questo tipo di servizio, soprattutto alla Marina. L’Isola del Sole è una di queste e nonostante l’ambiente possa sembrare caotico, con la voce che, squillante, chiama i numeri delle ordinazioni pronte per essere ritirate, il cibo è veramente notevole, sia per varietà sia per qualità. 
Più classico è invece La Grotta del Conte, ristorante specializzato in banchetti per matrimoni e con un menù di alta qualità. Gode di una vista invidiabile sul porto e sul mare.
Chiudiamo con il Tuna Lounge Restaurant, dove ho cenato l’ultima sera. Qui la cura dei particolari e la presentazione dei saporitissimi piatti è il valore aggiunto.
Oltre agli sfiziosi antipasti ho avuto modo di assaggiare un’eccellente carbonara di tonno che si sposava egregiamente con un salice salentino rosato.

Carbonara di tonno

L’accoglienza qui in Salento è un’arte ma anche una consuetudine ed è per questo che voglio lasciarvi con un piccolo aneddoto. Era pomeriggio e stavo tornando al B&B Il Giardino dove alloggiavo per fare una doccia quando, sulla strada, ho visto una coppia di anziani seduti su delle sedie di vimini: lei puliva il pesce, lui l’origano. È bastato guardarli un attimo e salutarli garbatamente per ritrovarmi in casa loro, ospite, a gustare fichi d’india appena sbucciati, a non poter rifiutare un gelato al pistacchio, a chiacchierare di tutto con quell’intimità che solo con le persone schiette si crea, a non voler più andare via.
Il Salento è questo, è ospitalità, è generosità, e un luogo dove le porte, qualunque esse siano, sono sempre aperte.

Ospitalità Salentina

sabato 12 settembre 2020

Castro, l'archeologia e il mare nella perla del Salento


Ci siamo, si riparte dopo mesi di chiusura e isolamento; non è stato facile, per nessuno, per me ancor meno perché viaggiare è vita per un viandante. Ho un aereo da prendere, mi porterà da Venezia a Brindisi e da lì mi sposterò a Castro, Casciu in dialetto, una delle perle del Salento. Antichissimo porto romano noto con il nome di Castrum Minervae per la presenza di un tempio dedicato alla dea della guerra giusta e delle strategie, è qui che Virgilio nell'Eneide fa approdare Enea dopo il suo lungo viaggio per mare. 

Il mare è sicuramente uno dei punti di forza di questo piccolo borgo, sia per la bellezza delle sue spiagge, sia per la produzione delle cozze, ed è proprio su questi argomenti che si basa il ricco programma di questo educational press tour, ma non voglio svelarvi nulla perché saprò raccontarvi tutto meglio fra qualche giorno.

Nel frattempo, come cantano i Sud Sound System: Questa è casa mia, terra mia.

mercoledì 8 gennaio 2020

Santa Marina, il pasticciotto e la nobile arte del cartaio

Il Santuario di Santa Marina a Ruggiano
Il terzo ed ultimo giorno dell’Educational tour dedicato al culto di Santa Lucia in Salento inizia con un bel sole caldo che spacca le nuvole rivelando un cielo di un azzurro intenso, quasi irreale. 
Il primo appuntamento è dedicato alla visita del Santuario di Santa Marina; ci troviamo a Ruggiano e quello che abbiamo davanti è un luogo di culto molto speciale come la santa cui è dedicato. L’attuale costruzione è il risultato di una serie d’interventi succedutisi nel tempo, dal 1500 fino al 1700. Originariamente si trattava di una piccola cappella costruita da monaci italo – greci e addossata all’adiacente monastero che occupava solo la zona corrispondente all’attuale presbiterio e sacrestia. Nel XVII secolo è stata completata e restaurata con la realizzazione delle due navate, mentre la facciata attuale fu terminata nel 1778. 
All’interno, oltre al bell’altare in marmo policromo e al pulpito con una balaustra lignea, campeggia la statua della santa che con una mano brandisce un martello pronto a colpire un drago la cui testa giace sotto il suo piede. Il drago, come da copione, rappresenta il male o il demonio ma Santa Marina è nota per essere la protettrice delle malattie legate al fegato, prima fra tutte l’itterizia.
Proprio per questo motivo il santuario è stato nei secoli meta di pellegrinaggio; 
La tradizione voleva che i pellegrini, prima di arrivare a Ruggiano, dovessero fermarsi a orinare nei pressi di qualcosa che avesse la forma di un arco, recitando i seguenti versi: “Arcu pint’arcu, tie sì bbèddu fattu. Ci nò ttè saluta, de culùre cu ttramùta. Ieu sempre te salutài e la culùre no ppèrsi mai”.
La statua di Santa Marina
Il pozzo fuori dal Santuario
Una volta giunti nel piazzale del Santuario poi, si acquistavano le zigaredde, i tradizionali nastrini colorati che, strofinati sulla statua della Santa e poi sul corpo, acquisivano il potere di prevenire la temuta malattia. 
Questa tradizione si perpetra tutt’oggi, soprattutto nel giorno dedicato alla santa, il 17 luglio.
Fuori dalla chiesa fa bella mostra di se un pozzo che ha una particolarità: i suoi lati hanno dei profondi solchi lasciati da corde e catene che servivano a tirare su i secchi; l’acqua è sempre stata cosa rara qui nel basso Salento e i pochi pozzi erano tenuti in gran considerazione dalle popolazioni locali perché rappresentavano l’unica fonte di approvvigionamento di un bene tanto prezioso.
È tempo di lasciare la quiete di questo luogo prezioso e affascinante e spostarci con il pulmino a Salve.

Gianluca Caputo alle prese con il pasticciotto

Pasticciotti assortiti
L’appuntamento è con Capricci del Corso, una delle pasticcerie più rinomate della zona; qui Gianluca Caputo coadiuvato dal suo staff ci insegnerà a “mettere le mani in pasta” e preparare il dolce più amato di tutto il Salento, il pasticciotto. 
La prima cosa che Gianluca tiene a precisare è che la condizione sine qua nonper ottenere una buona pasta frolla è quella di non usare assolutamente il burro bensì lo strutto. È proprio dalla pasta che iniziamo, lavorando nella planetaria la farina, i tuorli, lo zucchero, lo strutto e un po’ di ammoniaca in polvere. Una volta ottenuto l’impasto, si lascia riposare due ore in frigo dopo averlo coperto con un foglio di pellicola trasparente.
Si utilizza poi un’apposita macchina per stendere la frolla uniformemente con uno spessore di quattro millimetri, quindi, con un coppa-pasta si ritagliano i tondini che andranno a foderare gli stampini in acciaio, creando lo spazio per la farcitura. Se il masterpiece è la crema pasticcera, molte altre sono le varianti che questo prestigioso laboratorio offre, almeno dieci, fra cui crema al pistacchio (una meraviglia), ricotta e fichi o ricotta e caffè: ogni gusto è una sorpresa e una meraviglia.
Una volta farcito e ricoperto con un altro tondino di pasta, si elimina la parte in eccedenza e s’inforna il pasticciotto a 210° per 8/10 minuti in forno ventilato, e il gioco è fatto.
Ora, io in cucina me la cavo bene ma con i dolci ho sempre avuto qualche problema. “La pasticceria è matematica” diceva un mio amico che invece sfornava alla grande. Io con i numeri ci ho sempre preso poco, del resto ho fatto il classico, ma sono straordinario nella nobile arte dell’assaggiare e Gianluca, mastro pasticciere, è stato molto generoso con noi, sia nel regalarci i suoi segreti, sia portando sul tavolo di lavoro un ricco assortimento di queste perle preziose permettendoci di fare la regina di tutte le merende. 

Il giardino dell'azienda agricola Sante Le Muse
 
Orecchiette con le cime di rapa
Dopo un salto veloce nella bottega MelaCotogna, dove si vendono alcuni fra i migliori prodotti dell’enogastronomia salentina e dove Giovanna, la proprietaria, saprà consigliarvi sempre per il meglio, è tempo di metterci di nuovo in viaggio; la meta è l’azienda agricola Sante Le Muse, un luogo splendido, dove ormai sono di casa. Il legame che mi unisce a Fabiana Renzo e alla sua famiglia risale a due anni fa, quando scesi in terra di Leuca per il mio primo Educational. 
Pranzai da lei e scoprii che avevamo una cara amica in comune e da allora tornare ad assaggiare la sua cucina schietta e genuina è sempre una gioia. 
Su un grosso tavolo di legno in una delle sale, la madre di Fabiana ha apparecchiato un campionario delle principali erbe spontanee tipiche della zona, molte delle quali sono alla base di alcune ricette proposte nel ristorante. Oltre alle pastenache, le carote viola legate al culto di Sant’Ippazio, ci sono la cicuredda, il boccione minore e quello maggiore, gli zanguni e l’aspraggine, tutte piante spesso dimenticate ma che occupano ancora un posto di rilievo nella tradizione gastronomica contadina. Quello sulle erbe spontanee è solo uno dei tanti workshop che si svolgono in questo luogo che è molto di più di una semplice azienda agricola, ma è un posto dove cultura, arte, letteratura e musica si sposano perfettamente rendendo ogni incontro speciale.
Il tempo di godere un po’ dello splendido giardino baciato dal sole ed è ora di sederci a tavola. Il menù è, come al solito, ricco, a partire dai tanti antipasti fra cui le mitiche pittule (una tira l’altra) e una buonissima zucca con pecorino, per arrivare ai primi (gnocchi al ragù di carne e orecchiette con le cime di rapa) e a dell’ottima carne alla brace, tutto a km super zero. Le caraffe di vino, i dolci e un bicchiere (anche due) di distillato di alloro sono solo la ciliegina sulla torta, il giusto finale di una bella esperienza.

La statua di un gatto sul tetto della Masseria Spigolizzi
 
Nicholas Gray
Prima di andare a Lucugnano, dove ci aspetta un incontro con un mastro cartaio, ci prendiamo venti minuti per passare a trovare quelli che oso definire ormai due amici: Nicholas Gray, figlio della famosa scrittrice Patience Gray, e sua moglie Maggie Armstrong. La Masseria Spigolizzi, il luogo in cui vivono, si trova nell’area rurale di Salve, immersa in una natura bellissima fatta di uliveti divisi da muretti a secco, terra rossa e tantissime erbe spontanee, le stesse che si trovano nei libri di cucina scritti da Patience e venduti in tutto il mondo.
La madre di Nick vi si trasferì nel 1970 dopo aver viaggiato con il compagno, lo scultore belga Norman Mommens, per mezza Europa. La masseria era poco più di un rudere e i due la risistemarono e ci vissero per lungo tempo senza l’ausilio di nessuno strumento tecnologico: no frigorifero, no corrente, no telefono, una scelta categorica. 
Ora la Masseria Spigolizzi è una sorta di casa museo, e Nick e Maggie (insieme ai loro numerosi gatti) sono sempre felici di accogliere visitatori e curiosi e raccontano volentieri aneddoti sulla vita di Patience, una donna straordinaria, libera e lontana da qualsiasi schema.
Si sta facendo buio e quando arriviamo a Lucugnano, frazione di Tricase, il sole è ormai tramontato. 
Il pulmino ci lascia di fronte all’ingresso di Palazzo Comi, lo storico edificio dove visse il famoso poeta Girolamo Comi. Profondo conoscitore dei poeti simbolisti francesi, in queste stanze fondò l’Accademia Salentina nel 1948 dando vita alla pubblicazione l’Albero e a tutta una serie di iniziative compreso il valorizzare giovani di talento della zona grazie a borse di studio e sovvenzioni.
Oggi il piano nobile del palazzo è anch’esso una casa museo mentre al piano terra ha sede la biblioteca provinciale. È proprio in una stanza del pianterreno che ha luogo il workshop dedicato all’arte di fare la carta. A raccontarci, prima con un video e poi a voce, di questa nobile arte è il mastro cartaio Andrea De Simeis. L’approfondito studio della tradizione orientale per la preparazione della carta e una profonda conoscenza delle piante che ne sono all’origine hanno permesso a questo ragazzo di aprire la sua bottega, di coltivare il suo giardino/laboratorio, di produrre e vendere il suo materiale e, perché no, di insegnare, anche tramite workshop come questi, un mestiere antichissimo.
Dopo la spiegazione e aver toccato con mano fibre e polveri coloranti, si è passati alla pratica; devo essere onesto, questa parte me la sono persa perché ho preferito fare un piccolo tour privato nella casa del poeta, accompagnato da Carlo, inesauribile guida, che mi ha raccontato tantissime cose sulla storia e la vita di questo importantissimo letterato e sulla sua dimora; qui, fra i bellissimi arazzi appesi alle pareti ci fu un fermento culturale enorme, ospiti illustri, nazionali ed internazionali, soggiornarono in queste stanze e passeggiare attraversando i vari ambienti che circondano l’ampio cortile interno è stata un’esperienza unica. La grandissima cucina in muratura con il tavolo in marmo al centro e l'ampia credenza a parete è stato il vero clou della visita, la cucina dei miei sogni, in tutto e per tutto.

Il Mastro Cartaio Andrea De Simeis 
La cucina dei miei sogni a Palazzo Comi
Una volta finito il workshop risaliamo tutti a bordo del pulmino e ci dirigiamo a Tiggiano dove ad attenderci per la cena c’è la Trattoria Madamadoré.
L’accoglienza è di quelle da ricordare: c’è una piccola stanza con poche sedie riscaldata da un bel focolare, un luogo appartato dove attendere con tranquillità l’inizio del pasto, sorseggiando un calice di Rosato in pieno relax. 
Dorè (in sala) e Ugo (in cucina) sono i due pilastri del ristorante, l’anima stessa del locale, e sanno come mettere a loro agio i clienti. Le sale, sapientemente arredate con antichi oggetti della cultura contadina, ospitano i tavoli e un grazioso cortile, che addobbato con le luci sembra un vero e proprio presepe, promette, per i periodi estivi, fresche cene all’aperto.
Il menù è straordinario, a partire dall’antipasto misto della casa che comprende crocchette e arancini fatti in casa, polpette di farro brasate al negroamaro con cipolle, una deliziosa caponatina di ortaggi freschi, cipolle caramellate, un assaggio di formaggio primosale con confettura di fichi e per finire un flan di zucca con crema di scamorza affumicata e granella di amaretto.
Su espressa richiesta del gruppo la pasta non doveva essere presente ma è arrivato comunque un piccolo assaggio di cavatelli con fagioli e cozze: sublimi.
Per secondo abbiamo assaggiato un filetto di baccalà scottato al timo selvatico e rosmarino su crema di ceci e abbiamo chiuso in bellezza con frutta di stagione e dolci tipici fatti in casa. Ad accompagnare il tutto dell’ottimo Rosato e un Salice Salentino delle Cantine Vecchia Torre di Leverano. 

Ugo in cucina

Il bancone del Madamadoré
Sono gli ultimi fuochi del Fuoco d’Europa, questo Educational interessantissimo, ben progettato e ricchissimo di appuntamenti; il Salento e le Terre di Leuca hanno un patrimonio inestimabile che non riposa mai: visitare questa terra fuori stagione e, perché no, in inverno riserverà sempre delle graditissime sorprese e saprà donare a chi lo farà, il calore e l’accoglienza di un popolo straordinario e di luoghi fantastici. 
Vi invito al viaggio, sapendo che prima o poi tornerò anche io.